Veniva istintivo, rallentare un attimo, in quel preciso punto della
provinciale di campagna. Giusto il tempo per decifrare,
oltre un intrico di roseti e rovi, la rapida sagoma diroccata laggiù, in
lontananza. Nobile e fascinosa. Villa Paleotti Isolani.
Scarnificata nell’abbandono. Destinata un giorno o l'altro a crollare,
in solitudine, senza testimoni.
E così proseguendo in auto e lasciandosela alle spalle, in molti avranno
accarezzato il sogno di un rogito ancora in tempo.
Una ristrutturazione, per farla rifiorire: “Fosse
mia, la vedrei così…”. Tra i tanti di passaggio, qualcuno
però si è fermato.
Ha spento il motore, ha sognato più espressamente.
E forse, proprio al momento giusto.
Così, cinque anni fa, quella villa
ormai illividita, spettrale, ha aperto i cancelli a un nuovo
proprietario, amante d’Arte, titolare a Bologna di una galleria centrale
e famosa.
Fu un incontro felice per due: per la Villa, da subito accudita dal
preciso consapevole intento di un restauro senza compromessi: rigoroso,
conservativo, intransigente sul rispetto assoluto e scientifico dei
tratti originari del palazzo.
Un'opera di ripristino cerusica e maniacale (sono
stati ricreati anche i pigmenti originali delle porte), coordinata
dall'Architetto Dario Tumasetta e durata due anni e mezzo.
E fu incontro (sapientemente) fortunato per il proprietario-estimatore,
che ha potuto infine abitare, assieme alla famiglia, un immobile fuori
dall’ordinario, splendido esempio di architettura cinque-seicentesca
della pianura bolognese.
Contenitore felice per la gioiosa collezione privata
di opere d’arte “in progress”, e luogo perfettamente consono ad
ispirare e ospitare pregiate e calibratissime esposizioni,
distillate (una soltanto l'anno), e riservate ad amici e appassionati,
su prenotazione.
Il vialetto di accesso in ghiaia percorre l'ampio
giardino animato a lavanda, roseti, siepi di bosso, bambù, vite e piante
da frutto in placida convivenza con intrecci d’ombre e sporadiche
sculture contemporanee, di Kjell Landsfors, del recentemente scomparso,
talentuoso Giacinto Cerone.
Due grandi vasi pugliesi da olio in ceramica
riscaldano l'ingresso principale, che conserva infissi color verde
domenica, decorati con battenti antichi in bronzo (due piccoli leoni) e
apre senza cerimonie - con una schietta iniezione di luce - sull'ampia
sala, a sorpresa adibita a show-room.
Travi a vista, cotto fiorentino, e una pertinente illuminazione
artificiale per la sera assecondano questa autentica piccola galleria
d'Arte.
Che attualmente presenta i "palloncini" in alluminio
di Alberto De Braud, lavori di Claudio Olivieri e Dani Vescovi e, nello
studiolo attiguo orientato a Nord, creazioni di Riccardo Gusmaroli,
Alighiero Boetti (cui tra l'altro è stata dedicata una delle prime due
mostre in villa; l'altra, un'antologica su Mapplethorpe).
Svelare e rivelare, Alighiero Boetti (1992)
Artisti che spesso sono anche amici del
proprietario, che però minimizza e invita piuttosto ad apprezzare la
cucina adiacente: «È la cucina che ti racconta la personalità
dell'abitazione. Da lì, io capisco "che aria tira" in una casa.
Se è troppo asettica, probabilmente c'è paura di sporcarla -scherza il
proprietario- e allora vuol dire che non si mangia bene, che in quella
casa non si vive bene».
La cucina è una Molteni serie numerata, «la stessa dei grandi chef»,
pezzo di alto pregio che permette (a chi sa) di esprimere virtuosismi
culinari ai vertici; accanto, il caminetto è stato ricostruito
recuperando le piastre in rame originali.
L'antico lavello è stato ricostruito con pietra di Vicenza.
Il tavolo di noce dell'Ottocento proviene da
un'osteria dell'Appennino emiliano. Alle pareti, Schifano, Boetti e un
bislacco cd-player da muro Muji, con accensione a cordicella.
La cucina affaccia sull'antica cappellina della
villa, della quale permangono la copertura a volta e alcune tracce di
pitture murali.
Una piccola stanza adiacente ospita ora l'angolo
ludico della casa, con biliardino d'epoca e juke-box (disco hit in
vetrina: Se non avessi più te di Gianni Morandi, 1965) ben
conservati e funzionanti.
«È la stanza preferita dagli ospiti», ride il proprietario.
Nei servizi del piano terra, si segnalano un motivo a cornice in mosaico
verde, e le fughe delle piastrelle in tinta.
A raccordo degli ambienti, opere di Giuseppe
Uncini e Eliseo Mattiacci, un altro Schifano (del 1960), foto di Mat
Collishaw, una cassapanca fiorentina del '600.
Un disimpegno conduce infine allo scalone, coperto da
volte a botte e pitture che decorano due lunette di un interpiano.
Salendo al piano nobile, seguiamo l'Architetto Tomasetta, che ha
curato i lavori di restauro dall'origine e racconta:
«Al piano nobile oltre al salone era stata nel tempo inserita una serie
di stanzette create per motivi funzionali. Alcune finestre furono
chiuse, generando confusione nelle aperture, che abbiamo riorganizzato,
restituendo luminosità e coerenza all'insieme..».
A quel punto ci affacciamo sul grande salone
centrale, e anche l'architetto si interrompe. È la sala
mozzafiato. La più suggestiva, il fulcro della villa.
Al centro, intimidito dal soffitto a doppio volume e posato su un
tappeto, solo un tavolo con natura morta, metafisico. Volutamente
nient'altro, per non disturbare la francescana festa di luce e
proporzioni e la levità del solaio originario del '600, a cassettoni
dipinti con decorazioni a grottesche. «I mattoni del pavimento sono gli
originali, in cotto del Seicento. Li abbiamo staccati e ricollocati uno
ad uno. Un grande lavoro.», ricorda Tomasetta.
E davvero questa sala, in una giornata luminosa regala la solennità e
il mistero del tempo fermato e inalterabile: a sostarci dentro qualche minuto,
quasi ci si stupisce di non essere seicenteschi.
Usciamo (anche perché al bello è bene abituarsi per
gradi) e facciamo un salto in bagno: 16 metri quadri, lavandini Belle
Époque, un feltro afgano del '700 steso al suolo. Quanto basta per
sdrammatizzare.
Tra il salotto e il vestibolo del salone principale,
stazionano creazioni di Lucio Fontana, Paladino, Cerone, Gusmaroli,
Carla Accardi, Luigi Carboni, nuovamente Boetti, controllate a vista
da un'ipnotica scultura africana dei primi del '900.
Torniamo in giardino, poi nuovamente in auto. Seguendo allontanarsi nel
retrovisore la Villa, sale in mente un pensiero così, semplice semplice:
noi si passa rapidi, mentre l'arte ci sopravviverà.
E, strano a dirsi, dopo aver conosciuto questa
anziana, splendida signora, è un pensiero che fa quasi piacere.
Articolo pubblicato nel marzo 2005 sul mensile Svela Bologna,