Terzo piano di un condominio in centro a Bologna. Molti libri,
vissuti. Posato sugli scaffali, qualcuno dei tanti premi
giornalistici vinti negli anni.
Siamo a casa di Milena Gabanelli,
giornalista.
È stata la prima in Italia ad introdurre il videogiornalismo, girando da sé
i servizi.
Dal 1997, conduce Report, programma d’inchiesta su Rai Tre.
Milena ci accoglie con un sorriso, si trattiene qualche minuto al
telefono. Poi si mette comoda. Ti fissa con occhi chiari e uno
sguardo vivo, profondo.
La profondità di chi cerca sempre di
capire le cose. Ha il volto un po' tirato. Troppo lavoro, forse. E anche
qualche apprensione.
Come siamo messi a libertà di stampa? L’ultima
classifica mondiale pubblicata da Reporters sans frontières (RSF)
posiziona l’Italia al 39° posto.
«È un peccato. Non siamo messi bene e mi piacerebbe sapere perché.
Per quel che mi riguarda, con Report non siamo mai stati censurati,
ed esistiamo dal 1997.
Così mi chiedo: se noi riusciamo a fare un
discreto giornalismo di denuncia, perché altri non ci riescono?
Ecco, vorrei sapere quanto incide l’autocensura che gli stessi
giornalisti si infliggono, rispetto alla censura vera e propria».
Nel 1991 lei ha introdotto in
televisione il videogiornalismo, decidendo di abbandonare la troupe
e iniziando a lavorare da sola, con la sua videocamera. Come si è
evoluto il genere nel frattempo?
«Sono cambiate le telecamere. Prima erano Hi8, ora sono digitali.
Hanno una migliore definizione. Sono più accettate dai network,
perché la differenza di qualità rispetto ad una ripresa
professionale è meno marcata.
Così il
giornalista può lavorarci da solo, con il proprio computer. Con
costi minori e soprattutto con molto più tempo a disposizione.
Il videogiornalismo permette di ottenere risultati straordinari con
budget molto bassi».
Si fa ancora giornalismo
d’inchiesta in Italia?
«Noi, con Report, lo facciamo».
Lei collabora con la Rai dal 1982. Come è cambiata nel tempo?
«È diventata sempre più varietà. Fatta da persone che hanno tanta
voglia di apparire e poca voglia di rischiare in prima persona, di
fare fatica».
Cosa ne pensa del cosiddetto
“giornalismo personale”, l’informazione trasmessa attraverso i blog,
a lato dei canali “ufficiali”?
«Sono favorevole a tutto ciò che accresce la circolazione delle
informazioni, quindi anche a questo tipo di mezzi».
Non c’è il rischio che il lettore finisca per alimentarsi di informazioni non verificate?
«Chi accede a un blog in genere sa cos’è. Sa che è uno spazio
libero, dove girano molte informazioni, e anche parecchie
sciocchezze. Così se si trova una notizia "straordinaria", prima di
prenderla per vera è sensato verificarla.
È altrettanto importante cercare di risalire alla fonte. La rete è
come una grande piazza, dove ognuno può dire la sua. Così si
allargano gli orizzonti, si amplia la discussione».
Il 2004 è stato un anno funesto
per l’informazione. 53 giornalisti sono morti mentre erano in
servizio. Cosa sta succedendo?
«Sta succedendo che ci sono tante guerre. La voglia di andare a
raccontarle c’è sempre stata. Però nessuno ha inviato i giornalisti
in Nagorno Karabakh. Perché non interessava.
Si va invece in Kossovo, in Iraq, dove c’è anche un coinvolgimento internazionale.
coprono le zone di guerra, in modo assiduo, i rischi crescono.
Alcuni scenari poi sono particolari, basta pensare ai sequestri in
Iraq».
Parliamo della sua
trasmissione, Report. Con quali criteri selezionate i temi, gli
approfondimenti? Come valutate se meritano visibilità?
«Quando pensiamo che possano riguardare il maggior numero di persone
possibile. Quando disponiamo di una buona documentazione per
raccontare una storia».
Quali sono le
vostre fonti?
«Dipende dall'argomento. Per esempio, se parliamo di sofisticazione
alimentare, probabilmente troveremo la nostra fonte dentro il
settore. Magari sarà una persona che ha accesso ai documenti, ed è
in grado di dimostrare i fatti. Spesso troviamo le notizie
attraverso la segnalazione di qualcuno che all’interno di un qualche
ufficio si è stancato di qualcosa».
Il servizio di Report sulla
carenza di sicurezza delle ferrovie italiane andato in onda su Rai 3
il 7 ottobre 2003 scatenò una serie di reazioni e polemiche
pesantissime, accompagnate dal licenziamento di quattro dipendenti
delle Ferrovie e da una richiesta danni da parte di Trenitalia di 26
milioni di euro. A che punto è la vicenda?
«I dipendenti licenziati hanno fatto ricorso al Giudice del lavoro e
le cause sono in corso. Anche per quanto riguarda la nostra vicenda,
abbiamo una causa in corso».
Qual è il vostro stato d’animo?
«Non è splendido. Ma continuiamo. Siamo coinvolti in 14 cause di
questo tipo. Cause che possono durare parecchi anni. Oggi passo più
tempo a difendermi che a lavorare.
Però o lavori così oppure smetti. Io sono convinta che non dobbiamo temere
queste cause. Credo che siano intimidatorie».
Cos’è la “qualità” in televisione?
«Un programma di qualità può anche divertire e far ridere, però deve
arricchirti, darti un’informazione in più. C’è qualità quando,
finita una trasmissione, sei contento di averla vista. E non dici
"che schifo, cosa mi hanno fatto guardare!"».
Parliamo di Bologna. Con un articolo su Io Donna lei ha recentemente criticato il lavoro
svolto da Cofferati durante il primo anno da Sindaco. Non pensa che
le critiche a Cofferati siano ormai diventate un tormentone?
«Penso che quando si fanno delle promesse bisogna essere certi di poterle
mantenerle. Io ho votato Cofferati perché gli ho creduto. Lui ha
detto: risolverò il problema del traffico. Il problema di questa
città è prima di tutto l'aria, non si respira. Prima si respira, e
poi si possono fare le altre cose.
Ma se dopo un anno non si riesce
a vedere un cambiamento in una città che non ha nemmeno 300 mila
abitanti, allora cosa si può chiedere a Berlusconi dopo cinque anni?
Poi, non riesco a perdonargli di non essersi presentato a
Crevalcore, sul luogo del tragico incidente ferroviario del 7
gennaio scorso. Aveva la febbre alta. Bene: allora i cittadini
devono sapere che non ci puoi essere perché sei disperato, bloccato
a letto con la febbre. Si deve sapere. Se non si sa - e non lo
sapeva nessuno - è perché avevi un ufficio stampa che non
funzionava.
E per farlo funzionare non ci vogliono anni. Allora, visto ciò che
le ferrovie significano per Bologna, per tutte le stragi subite, per
la lunga tradizione ferroviaria di questa città, non puoi non farti
vedere. Perché allora ha ragione chi dice che Cofferati è distante
dalla città.
Poi lui forse è presente ai melodrammi... Però la città è anche un’altra
cosa».
Quale potrebbe essere la motivazione di questa "distanza"?
«Penso che faccia parte del suo carattere. Cofferati ha fatto per
tanti anni il sindacalista e forse applica criteri che sono tipici
della gestione di un altro tipo di organizzazione. Non ho rancore
nei suoi confronti.
Piuttosto, credo che le critiche servano a
costruire.
Bisogna uscire dal palazzo, andare in mezzo alla gente e ascoltarla. Il
nostro sindaco sta sbagliando il modo di rapportarsi con la gente.
C’è il desiderio di fare bene, di fare meglio, di cambiare.
La mia non è una condanna definitiva».
Cosa cambierebbe di Bologna?
«La mentalità dei bolognesi, troppo “bottegai”. Quando sento i
commercianti lamentarsi che se si vieta l’accesso alle auto in
centro rischiano di chiudere, allora vuol dire che c’è proprio una
mentalità da cambiare.
La Bologna che ho conosciuto negli anni ’70 – io venivo da Milano – mi
conquistò per la sua vivacità.
Le amministrazioni allora sapevano
fare emergere la vitalità, sia degli studenti - che raddoppiano la
popolazione di Bologna - che dei bolognesi».
Come sarà la prossima campagna
elettorale nazionale?
«Sono disgustata dal panorama politico. Vorrei votare “per”, perché
sono stufa di votare “contro”. Vedo una classe politica che ha
portato il Paese in una condizione miserabile. Se siamo giunti a
queste condizioni non è solo colpa di Berlusconi.
C’è anche l’aver permesso questo scempio, non aver fatto le leggi
che dovevano essere fatte quando era il momento. In questo c’è una
grossa responsabilità. Ora ci ritroviamo con le stesse persone. E
dovremmo scegliere chi votare proprio tra queste...».
Come trascorre le sue giornate?
«Quando sto a Roma mi alzo presto, alle 9 sono in redazione, esco
alle 22.30. Entro in Via Teulada, mangio in mensa, sto in redazione,
in montaggio. Alle 23.30 sono a letto. Mi muovo tra Via Teulada e
Viale Mazzini.
A Bologna invece mi alzo e se posso vado a correre,
poi comincio a lavorare. In mezzo ci metto anche la spesa, la
lavatrice, faccio da mangiare, ceno con mio marito. Vivo qui. Questa
città è il mio punto di riferimento».
La fermano spesso per strada?
«Raramente. Quando mi fermano in genere è per raccontarmi che dovrei
occuparmi della loro suocera.
Tutti hanno una storia tremenda che
vorrebbero raccontare».
--
Intervista pubblicata nel giugno 2005 sul mensile Svela Bologna.
▪ photo: courtesy Milena Gabanelli
▪ tutte le inchieste di Milena Gabanelli:
Dataroom (Corriere della Sera)