BMM,
a fashion magazine
N.18 - "Awards issue"
Una casa racconta
Pareti spoglie o affollate di oggetti.
Libri come finestre su altre abitazioni.
Un fermacapelli dimenticato...
di Paolo Ruggiero
Ritorni dal viaggio, apri con tre mandate la porta di casa.
La riconosci tua. Metti un CD. Anche la tua musica è la tua casa.
Ognuna ha la propria acustica. Ciascuna un proprio orientamento.
Una carica elettrica e magnetica.
Ciascuna la propria esposizione al sole. La posizione degli specchi. Insomma, un
teatrino in cui ti muovi e ti rifletti.
E i tuoi libri, se ne hai. Ti danno calore. Arredano. Aprono a scelta finestre su
altri interni, altre case. I tuoi libri, ovvero una porzione del tuo
inconscio, esposto e tangibile a parete.
E i cibi. Dentro la credenza. Qualcosa che ti ricorda com'eri anni prima.
Un vasetto di salsa d'olive dimenticato e scaduto. Ti ricorda quando ti
piaceva la salsa d'olive. Salta fuori anche una bottiglia di
Teroldego.
Oppure una casa nuova, ancora da rodare, tirata a bianco.
Da reticolare man mano di progetti. Di idee a cui dare seguito.
O una casa che sai provvisoria. Nella quale così preferisci non investirci più di
tanto. Allora tieni le pareti spoglie. Giusto un paio di poster che non lasceranno segni.
O ancora: un appartamento che devi abbandonare. E quindi cominci a trascurarlo. Se qualcosa
si intasa, si rompe, non lo ripari più; i tuoi oggetti a cui vuoi bene,
qui dentro già ti sanno di stagione passata.
E nel trasloco li seguirai spostarsi in autostrada, in un furgone, saranno
affidati un po' anche all'improbabile disciplina degli altri
automobilisti. Incroci le dita: che non taglino la strada. E poi nella
nuova casa ci entreranno compressi in scatoloni, ricominceranno a
popolarsi.
O invece: un appartamento dentro tutto affollato di segni e tracce per non farti
perdere l'orientamento, spaesato com'è nella metropoli arida di affetti,
condominio dall'esterno anonimo.
La tua casa stracolma di oggetti. Di cui non vuoi o non riesci a liberarti. Trappola affettiva da
cui non puoi sgattaiolare. Pareti stracariche. Scaffali imbarcati.
Oppure vuoti. Magari una casa di campagna, tutta proiettata sull'esterno, sul prato,
con le porte spesso aperte. L'arredo essenziale, sobrio, contadino. Non
minimale.
O invece sì, “minimale”. Etichetta logorata. Tendenza data per morta che eppure
resiste.
Sottoscrivi la "poetica della rinuncia"? Rinunci a
confonderti le idee con continue modifiche agli ambienti?
Oppure riduci al minimo gli
elementi spaziali, i vuoti e pieni, e attribuisci a quei pochi che
restano l’importanza dell'essenziale, su cui far planare le idee,
su cui sorseggiare un rosso da meditazione.
Cos'è? Minimalismo che seguendo la moda adotti in quella sua declinazione troppo teatrale e
aggraziata, buona per un nuovo décor di tendenza, di cui ti sfuggono i
contorni e al quale in fondo non aderisci del tutto?
Oppure vuoto da riempire man mano con progetti; o infine: vuoto come assenza di segni
che ti spensiera, come rimbombo dei tuoi tacchi che ti rilassa.
Ti ci ritrovi, nel tuo ordine ossessivo. O all'opposto, nell'anarchia. C'è per
caso anche una gatta? Allora sono almeno due le case. Anche quella che
vede lei dal basso, non lo dimenticare.
È un appartamento nuovo? Più probabile che non lo sia: che prima ci abbia
abitato qualcuno. Chi c'è stato prima? Ha lasciato dei segni?
Quell'ammaccatura sulla gronda della caldaia. Chi l'ha fatta. E quando.
La conosci davvero la tua casa?
Oppure la scopri per la prima volta dopo anni, quando sposti un mobile,
perché c'è finito dietro qualcosa. E guarda: ecco dov'era quella
penna che avevi perso!
Tu scosti l'armadio. E allora
scopri l’intento originario, geometrile, delle pareti spoglie.
Quasi ti commuove la prima mano di bianco sbiadita dagli anni, ti sembra che
tutto sia chiaro all'improvviso. Che tutto sia sempre e solo
un'interpretazione. Quella disposizione di vuoti e pieni. Ma potrebbe
essere benissimo anche un'altra.
Il tuo rapporto con gli oggetti
com'è? Sono storie che non durano, di cui ti stanchi presto? Ogni tanto
ne depositi qualcuno in strada, accanto al cassonetto. Un
appendiabiti come un trespolo su cui si posano subito i piccioni.
Un 18 pollici che riflette gli stivali delle ragazze sotto al portico.
Oppure, aggravati dal tuo possesso, gli oggetti prendono ad
assomigliarti, a darti consiglio, come quelle occhiaie di gufo che ti
osservano sempre dallo scaffale, anche se sei di spalle.
Ogni giorno scorri lo sguardo
sul pieno delle cose, i simulacri solidi dei tuoi ricordi, dai quali
regolarmente levi la polvere.
O un giorno il tuo sguardo
scivola come una saponetta sul vuoto lasciato improvviso, lampante: da
oggetti non tuoi, che nel silenzio freddo di una separazione sono stati
tolti in fretta, e portati altrove, non ti è dato sapere, e forse non li
vedrai più.
O per finire, la poesia di una forcina color
pastello, di un "ciappino" dimenticato da una ragazza.
Che così, senza aver detto niente, ti fa capire che
vorrebbe ritornare.
Articolo pubblicato nell'inverno 2006
sul mensile di urban cultures in grande formato BMM.
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